giovedì 27 gennaio 2011

Sanità e Santità (8)

La gioia di condividere un’esperienza eterea


Avevo perso il sonno già dalla prima notte trascorsa al PTV (ovvero Policlinico Tor Vergata). Non riuscivo più a dormire se non per un quarto d’ora al massimo, anche quando decisi di prendere il sonnifero.
Il climatizzatore aveva senz’ombra di dubbio influito sul mio sonno. Continuavano a ripetermi che poteva essere regolato in ogni stanza ma non era affatto vero. Il problema che mi ha creato è stato grande e permanente. Tutt’oggi dormo poco e male: me le sono scordate le sei-otto ore consecutive e serene degli anni precedenti! Mi svegliavo di scatto dopo un breve pisolino e poi non riuscivo più ad addormentarmi. Questa era un’altra paura aggiunta che mi faceva desistere dall'essere operata lì. Pensavo che se mi fosse capitato anche dopo l’operazione  e con quei tubi infilati nel torace per il drenaggio, mi venivano i brividi solo ad immaginarlo quanto dolore avrei provato Non riuscivo neanche a sopportarne l’idea!
Comunque a causa di ciò mi resi conto che non mi reggevo più in piedi per la stanchezza, e così scelsi un’alternativa: non dormire nella mia stanza (dove ero obbligata a tenere la finestra chiusa per rispettare la co-degente che dormiva nell’altro letto e che era stata appena operata), prendere il cuscino e la copertina e trasferirmi nella saletta dei visitatori. Qui, dopo aver spalancato la finestra, riuscivo perlomeno a stemperare l’effetto del climatizzatore e a non sentire il ronzio continuo che sprigionava. In queste condizioni riuscivo giusto a farmi un paio d’ore di sonno alla meno peggio. Ovviamente questo mio atteggiamento era visto in modo bizzarro dalle infermiere, dai medici e non per ultimo dai vigilantes che mi raggiungevano nella stanza degli ospiti per vedere se stavo fumando.
Eh già, era davvero inconcepibile questo modo di fare ma non me ne importava di quello che pensavano gli altri: stavo seguendo “la via del mondo non palpabile” e dare spiegazioni non serviva proprio a nulla se non a farmi deridere e ad essere trattata come una malata stressata che non era in grado di intendere e di volere!

Quando andai all’ufficio della direzione amministrativa notai che era caldo, se messo a confronto con le nostre stanze. Che forse per loro soltanto funzionava il timer del climatizzatore?
Mentre consegnai la lista delle lamentele all’addetto competente lo feci presente, ma anche lui come tutti gli altri mi rispose che in ogni singola stanza si poteva regolare (però non era vero perché neanche le infermiere che mi spiegarono come fare riuscirono ad alzare la temperatura).
E a proposito delle infermiere, nella lista avevo segnalato pure che alcune di loro che si alternavano nei turni al reparto di pneumologia, sbagliavano a dare le medicine ed erano lascive, distratte, non proprio adatte ad una professione così importante. Questo loro vennero a saperlo senza che uscisse dalla mia bocca, e proprio quelle infermiere lascive, dietro questa segnalazione finalmente cambiarono atteggiamento, ma non senza avermi chiesto se avessi fatto il loro nome.
“No, per il momento non l’ho fatto ma siate meno sciattone nello svolgimento del vostro importante lavoro. Non sono tanto carogna da pensare che chi sbaglia non possa avere una seconda possibilità di riscatto, ma ricordate che errare è umano e perseverare è diabolico!”
Loro furono più attente e non mi diedero più una risposta del tipo: “ah si ti ho dato l’antibiotico sbagliato ma... non è importante sai? è solo un antibiotico, non fa nulla!” e io non ebbi più a dir loro: “se non fa nulla prenditene uno tu adesso! ecco manda giù questo!”
E segnalai pure che per quattro giorni nessuno mi aveva misurato la temperatura perché (a dire delle infermiere) non c’erano termometri disponibili. Che avevo freddo e non c’era una copertina. Che il cibo faceva letteralmente schifo e a volte era addirittura crudo (quando trattasi di pollo/tacchino la cosa si fa pericolosa eh!?).
Non so se il modulo da me compilato sia stato preso in considerazione (ho seri dubbi in proposito), però quell’azione mi portò a conoscere una persona che a distanza di 5 anni (tanti ne sono passati da allora) ancora ricordo con piacere.
Denise, una donna francese (bella dentro e fuori) che si trovava quel giorno nello stesso ufficio in cui mi ero recata io e per lo stesso motivo: consegnare il-modulo-delle-lamentele. Non ci misi molto a capire che si era davvero stancata di essere presa in giro dalla burocrazia praticata in quel reparto dell’ospedale, infatti, quando le dissero “compili questo modulo” mentre io continuavo a completare il mio, la sentii esprimere verbalmente la sua furia anche se molto composta:
“Sono stanca di riempire moduli, conoscete già bene il motivo che mi ha spinta a venire qui. Questo è il terzo modulo che mi date da compilare in risposta a quanto lamento. Possibile che non mi resta che denunciarvi ai carabinieri per farmi ascoltare? Adesso basta! La mia pazienza è finita”.
E fu proprio questo suo sfogo a portarci al nostro primo contatto. Presi la “palla al balzo” e cominciai ad interagire con lei, a chiederle informazioni in primis, avendo sentito che già aveva vissuto la “trafila burocratica dalla facciata gentile che a nessun risultato portava”. Dapprima restò sulle sue e quindi le raccontai prima dei problemi che io ero venuta a presentare in quell’ufficio, pur immaginando che forse non sarebbe servito a nulla. E infine conclusi con una frase classica (se vogliamo definirla così): “stiamo davvero solo nelle mani di Abba”.

Abba.
Quando mi sentì chiamare Dio con quella parola (Abba = Padre), Denise si rilassò immediatamente e mi sorrise con la speranza negli occhi. Poi cominciò a raccontarmi la sua disavventura.
Mi disse che anche lei aveva avuto problemi con l'équipe medica ed era arrivata addirittura a pensare alla denuncia perché, dopo avermi parlato di come era stata gestita la malattia del marito (cancro anche per lui), dopo essersi lamentata, dopo aver compilato moduli più e più volte, comunque non era stata ascoltata. Era stato tutto questo che l’aveva fatta infuriare (ma sempre con molta classe eh?! classe francese!).
In quella stanza, in quel momento, aveva deciso di firmare la dimissione e portare via il marito da lì per andare in Francia, dove credeva fermamente che sarebbe andata meglio.
In effetti in Francia hanno un’altro “metodo” per trattare il cancro. Non sono molto ferrata riguardo a questo, è vero, ma una cosa la so per certa: quando si tratta di cancro alla mammella, la grossa differenza che c’è tra il metodo italiano e quello francese è che nel primo paese c’è la mastectomia sicura, nel secondo c’è un trattamento curativo a base ormonale (che poi è simile a quello americano!).
Abba.
Entrambe avevamo una gran fiducia in Lui e quindi dopo esserci sfogate un po’ riguardo il trattamento ricevuto da alcune persone che lavoravano nell’ospedale (voglio augurarmi che non sia il modus operandi del PTV!), uscendo dall’ufficio amministrativo decidemmo assieme di passare in cappella per parlare con Abba.
Mentre percorrevamo corridoi e scale per raggiungere la cappella le raccontai del mio sogno, della Fiducia ritrovata, della decisione che avevo presa, delle risposte che Abba mi faceva trovare ad ogni visita che Gli facevo...
Ad un certo punto le arriva una telefonata. Era di suo marito che le chiedeva dove fosse. Lei gli raccontò tutto quanto aveva fatto e che aveva deciso di fare, e quando gli disse anche del nostro incontro e del fatto che avevo nominato Abba notai il suo tono di voce colmo di una speranza che intendeva trasmettergli. Ma quando la telefonata terminò, Denise restò delusa dal fatto che non era riuscita a infondergli quella fiducia che si era risvegliata in lei.
“Io vengo spesso a pregare qui da quando mio marito è stato ricoverato”, mi confessò facendomi percepire la sua tranquillità.
A me sembrò che valutasse quel nostro incontro casuale come una coincidenza che non considerava proprio tale. Percepivo un’affinità tra le nostre anime e percepivo che anche per lei era così.
“Ecco, è qui che trovo le risposte alle mie domande. Leggiamo quale messaggio c’è per noi”, le dissi quando mi avvicinai al Libro aperto posto sul leggìo vicino l’altare.
Non ricordo esattamente quale parabola trovammo quel giorno perciò non la posso citare con precisione, però ricordo che narrava dell’importanza del credere spontaneamente (senza essere convinti da qualcun altro), delle disposizioni di Gesù dettate ai suoi apostoli riguardo al fatto che non dovevano convertire nessuno perché chi avesse voluto seguirlo avrebbe dovuto farlo spontaneamente. Me lo ricordo perché poi Denise mi disse che suo marito era un cattolico (di nascita) ma non era credente, e che si era già rassegnato alle conseguenze che dava per scontate riguardo al “tu-muori” che gli avevano diagnosticato.
Il messaggio di Abba l’avevamo letto e comprendemmo perfettamente che non si poteva convincere una persona a ritrovare la Fiducia, che non si doveva insistere cercando di fargli trovare “il contenitore giusto per poter attingere alle grazie della Sua misericordia”.
La Fiducia o c’è o non c’è. In suo marito non c’era e lei capì che non poteva farci nulla (con suo grande rammarico) ma comunque fosse non perse la speranza, decisa com’era a continuare a parlargli di Abba (almeno questo poteva farlo!).

A proposito del messaggio in questione, mi venne subito in mente il particolare delle campane sul telefono di Moshé... Lui è di un’altra religione e quindi quel messaggio  che trovammo Denise e io, era valido anche per me, nel senso che non potevo e non dovevo (mai) “convincerlo a cambiare parrocchia”, ma questo lo sapevo già. Noi due conviviamo da vent’anni in pace e col rispetto delle nostre credenze, però potevo sempre renderlo partecipe della mia fede di “credente atipica” (quale mi definisco a tutt’oggi), senza subire alcuna forma di pregiudizio. E viceversa naturalmente.
Per me quel messaggio non era altro che una conferma, per Denise era una presa di coscienza.
Subito dopo la sua telefonata trovammo sulle panche due libricini che raccontavano la storia di Suor Faustina, del suo diario, del suo incontro con Gesù della Misericordia, della sua devozione e  della Fiducia, delle sue preghiere personalizzate...
I libricini erano due e ci sembrò che fossero lì proprio per noi. Ne prendemmo uno ciascuno e fu in quel momento che Denise mi chiese di scambiarci i numeri di telefono. Anche io non volevo perderla di vista, e proprio su quei due libretti l’un l’altra trascrivemmo i nostri numeri. Eravamo entrambe contente di esserci incontrate in quel frangente di vita molto particolare.
Eravamo entrambe contente di aver potuto condividere una esperienza impalpabile, sì, ma che sapevamo essere reale perché era stato con il senso della realtà che l’avevamo vissuta.Così l’avevamo percepita, passo dopo passo, durante la mattina che avevamo trascorso assieme.
Quel libricino ce l’ho ancora. Sulla copertina c’è la rappresentazione di Gesù della Misericordia e di Suor Faustina (entrambi poggiano i piedi sul mondo), dietro c’è la foto di Giovanni Paolo II mentre benedice il quadro del Gesù Misericordioso, ed è stato proprio sulla prima pagina che ho annotato, oltre al numero telefonico di Denise, anche una speciale e inedita preghiera: Abba Ra Heim.

Padre nostro celeste,
Alleluia.
Venga il tuo regno celeste sulla terra,
Alleluia.
Sia obbedita su questa terra la tua legge celeste,
Alleluia.
Proteggici dal caos e provvedi ai nostri bisogni,
Alleluia.
Amen.

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