giovedì 20 gennaio 2011

Sanità e Santità (3)

Dopo una settimana erano state eliminate tutte le altre possibili cause, come quella della tubercolosi ad esempio. E io che pensavo fosse stata debellata da tempo! Ma invece no, mi diceva il medico: “Lei ha fatto qualche viaggio all’estero di recente, e questa possibilità non è da escludere”.
Ormai ero stravolta da questo evento: avevo avuto più di una crisi di pianto ed ero anche molto nervosa (forse perché stavo anche cercando di smettere di fumare), ma nonostante tutto, avevo avuto modo di fare conoscenza con altre degenti e di parlare, parlare, parlare, e pregare... (con il cuore più che con le parole!).
La mia indole è socievole e quando trovo persone aperte alla comunicazione non mi tiro certo indietro. Una di queste era una suora missionaria che veniva dall’Africa e parlava soprattutto inglese e pochissimo italiano. Ovviamente siamo riuscite lo stesso a capirci bene, benché il mio english fosse arrugginito e mischiato a parole italiane e la gesticolazione (tipica caratteristica comunicativa della nostra nazione).
La suora ed io avevamo in comune un buco nel polmone: io ancora non sapevo che si trattava di adenocarcinoma e lei non riusciva a tranquillizzarsi pure se le avevano detto che non si trattava di una neoplasia (altro nome per indicare il cancro). Comunque parlavamo un po’ di tutto oltre che delle nostre preoccupazioni sul nostro stato di salute. Dovevamo pur divagarci un po’ però, inevitabilmente, poi si tornava sempre a parlare delle nostre paure sulla nostra salute.
Ascoltando i suoi racconti per un attimo riuscivo a trovarmi in Africa e vedere il suo lavoro, e lei riusciva a fare un tour mentale anche fra i monumenti di Roma...
Mentre parlavamo, passeggiando per i corridoi, ad un certo punto mi chiese di scendere al piano di sotto e di recarci in chiesa. Io accettai ed entrammo, ma invece di starci con serenità e pregare fiduciosa, le lacrime cominciarono a sgorgare a cascata dai miei occhi e non potei fare altro che uscirne con la stessa facilità con cui entrai. Non me la sentii di restare quando i singhiozzi diventarono disperati, e ciò accadde in più occasioni, anche quando provai ad entrarci da sola. Era trascorso tanto tempo dall’ultima volta che misi piede in chiesa, e quando ebbi modo di riavvicinarmi provai come una sorta di vergogna per la mia reazione lacrimosa, pur se era involontaria.
L’intenzione di starmene in raccoglimento e farmi toccare dalla serenità dell’ambiente c’era tutta, ma l’inconscio, a quanto pareva, la pensava diversamente. Forse la causa era attribuibile alla tensione per la settimana di controlli medici che era stata intensa, tra esami e pubbliche relazioni. Inoltre avevo cambiato stanza per due volte. Tuttavia, anche a distanza di anni, ancora non so dire con certezza cosa spinse il mio subconscio a reagire a quel modo.

Con tutte queste divagazioni quella breve degenza mi sembrò durare più a lungo. Cominciavo a sentirmi frenetica e ansiosa perché nonostante domandassi continuamente come andavano le mie analisi e gli esami a cui ero stata sottoposta, ancora non riuscivo ad ottenere chiare risposte. Così durante l’ennesima passegiatina nel corridoio del reparto, incontrai il primario e mi decisi a chiedergli se potevo tornare a casa.
Lui mi rispose guardandomi negli occhi:
“Ma come? si è già scocciata di stare con noi signora Enza? L’abbiamo trattata così male?”
Non c’era un motivo particolare ma cominciai a piangere ancora una volta mentre gli rispondevo:
“No, certo che no! Siete tutti così gentili qui che è stato davvero un piacere conoscervi, ma... se non ho niente di che ora posso tornare a casa?”
E così, vedendo il mio stato pietosamente cieco, con una santa pazienza il primario mi prese sotto braccio e mi portò nella stanza dei computer dove mi mostrò la mia TAC.
Mi trattò con i guanti (come si dice), e con tutta la calma che lo contraddistingue dai tanti altri medici che ho avuto modo di incontrare, mi parlò con una tale familiarità da mettermi a mio agio e farmi calmare immediatamente.
Lui aveva compreso che volevo sapere, che volevo essere informata in prima persona e quindi mi spiegò con vocaboli a me comprensibili cosa mi stava succedendo, quale fosse il modo migliore per intervenire, cosa sarebbe convenuto fare prima... Insomma riuscì a tranquillizzarmi anche se mi aveva spiegato per bene che la situazione era abbastanza grave: avevo un adenocarcinoma polmonare a grandi cellule con metastasi ai linfonodi del mediastino.

La cosa più importante che in quel momento recepii, fu per me l’informazione che mi diede circa il cambiamento del rapporto tra la sanità e i pazienti. Infatti mi chiarì il concetto che la persona che si rivolgeva al medico non doveva più considerarsi un paziente passivo perché da qualche tempo ormai, c’era stato un cambiamento che aveva trasformato quel rapporto passivo in attivo, tra l’azienda sanitaria che offre un servizio e l’utente che sceglie da quale azienda “essere servito”. Questa informazione risultò poi tornarmi molto, molto utile. Certo, questo significava che mi dovevo informare, altrimenti su quali basi avrei potuto scegliere? E da quel momento scattò in me qualcosa che mi spinse ad interessarmi di tutto, dal tipo di malanno con cui avevo a che fare al tipo di struttura da scegliere per risolvere la questione...

“E ora, signora Enza dovrebbe decidere in quale struttura vuole essere operata. Noi qui non possiamo farlo perché non abbiamo una sala operatoria per la penumologia, ma può scegliere tra il San Camillo o il Policlinico di Tor Vergata...”

Il San Camillo... Avevo un ricordo squallido di quell’ospedale: l’isterectomia l’avevo subìta proprio lì. Le spiegazioni o le rassicurazioni non avute dai medici erano state zero assoluto, anzi, addirittura sono dovuta andarli a cercare per parlare almeno con uno di loro. E tantomeno ho avuto un contatto umano. Nada de nada! Inoltre la struttura me la ricordavo fatiscente, pullulante di zanzare, materassi di gommapiuma di neanche dieci centimetri che infuocavano le carni, carenza d’igiene... e meno male che c’erano almeno bravi chirurghi!
Feci la mia scelta senza pensarci su due volte, incalzata com’ero anche dal ricordo che avevo ancora vivido di quando appena quindici giorni prima ero andata a far visita a mia cognata... Lei era stata operata d’urgenza alla testa per rimuovere una massa tumorale. La sera prima si era recata in pronto soccorso a causa di una paresi facciale e da lì, dopo i primi esami ematici e la TAC, era stata trasportata direttamente in sala operatoria. Me la ricordo ancora così: in reparto, con la testa fasciata, seduta su una sedia vicino al letto in una grande stanza con tanti, tanti altri letti e altrettanti degenti, uno vicinissimo all’altro. I separè a dividere gli uomini dalle donne, padelle, flebo, zanzare... tante zanzare!
Purtroppo per lei qualche giorno più tardi le annunciarono che dovevano operarla anche al polmone. E fu proprio per questo motivo che avevo già avuto modo di vedere pure il reparto di pneumologia del San Camillo.
“No, no, il San Camillo no... forse è meglio Tor Vergata” gli risposi con convinzione, pur non conoscendo quest’altra azienda ospedaliera (molto presto cambiai idea, ma ve lo racconterò più tardi: non sempre ciò che è bello balla bene! lo sapevo già però stavolta lo avevo appreso nel modo più stressante).
Il primario mi rassicurò sul fatto che in quella struttura facevano anche la Pet Tac, e che era molto importante che mi sottoponessi quell’esame perché avrebbe stabilito con esattezza la stadiazione del cancro.
“Posso dirle che è stata fortunata nella sua sfortuna, signora Enza. Nonostante lei abbia aspettato un po’ troppo a sottoporsi agli esami del caso è in tempo ad intervenire. Il cancro che l’ha colpita è a grandi cellule, è definito macrocitoma, questo significa che avanza in modo molto più lento rispetto al microcitoma (quello a piccole cellule). Tuttavia non c’è altro tempo da perdere...”

Dopo averlo ringraziato per avermi spiegato per bene la mia condizione di salute e non solo, tornai nella stanza per sistemare la borsa con le mie cose. L’indomani sarei stata dimessa e sarei dovuta andare direttamente al PTV.
Anche altre due tre compagne di stanza stavano facendo altrettanto, visto che erano in uscita. Con loro non avevo legato molto i primi due giorni, e non perché erano sulla settantina ma per i pregiudizi che si erano create su di me quando mi spostarono nella loro stanza. I loro capelli erano tinti e corti come “si conviene alle signore di una certa età”, mentre i miei erano bianchi e lunghi, e inoltre usavo stare seduta sul letto a gambe incrociate (un modo davvero insolito secondo loro). A quanto pare era bastato solo questo a far nascere in il sospetto che fossi una zingara o una extracomunitaria!
Cosa possono essere i pregiudizi eh!? Aveva ragione Albert Einstein affermando che è più semplice spezzare un atomo che un pregiudizio (non è l’esatta citazione ma il senso credo si capisca bene!) e così era stato, ero stata considerata “la diversa” e tanto bastava a fargli tenere le distanze.
Diversa lo ero davvero, ma non siamo forse tutti Unici?

Essendo la più giovane fra loro (d’altra parte avevo quasi la metà dei loro anni!) la mia testa ragionava in altro modo: mi piaceva (e continua a piacermi) il colore bianco naturale dei capelli e me lo tenevo, e mi piacevano lunghi così come li portava qualsiasi altra donna della Birmania, del Messico, dell’Italia del sud... E mi piaceva calzare non le classiche ciabatte ma le infradito con i calzini, e sedermi a gambe incrociate...
Eh sì, era stata dura riuscire a comunicare con queste signore dalla mentalità circoscritta al loro piccolo mondo antico! Diciamo pure che ho voluto (mi sono sentita in dovere di farlo!) rompere quella barriera di cristallo che avevano alzato come per istinto: loro da una parte e io (la strana) dall’altra. Ci riuscii semplicemente raccontando di me, del perché stavo lì, che libro stavo leggendo (anziché le stupide riviste di gossip!), abbandonando per prima quello stato di difesa con il quale avevo approcciato il primo giorno entrando in quella stanza, e che avevo intrapreso in risposta a quel tacito ma visibile pregiudizio nei miei confronti.
Riuscite ad immaginare la loro meraviglia quando mi hanno sentita parlare in dialetto romano? Avrei potuto modulare l’italiano ma invece no! Avevo scelto il dialetto proprio perché la mia via vicina di letto somigliava alla “sora Lella” (sorella di Aldo Fabrizi) nel suo modo di esprimersi, e quindi non avevo fatto altro che adeguarmi.
In poche parole, alla fine della degenza le signore vollero addirittura che ci scambiassimo i numeri di telefono per tenerci in contatto anche dopo l’uscita dall’ospedale.
Mi viene in mente (mentre scrivo) che una di loro volle provare sui miei capelli la treccia a tre (mai vista prima, ma lei sapeva farla e volle mostrarmela!). E mi ricordo pure che non sapevano leggere. Riuscivano a malapena a firmare a memoria, e fu per questo che incaricarono me di memorizzare nomi e numeri di tutte sulle loro agendine. Appena venni a conoscenza di questo fatto, durante l’ultimo giorno che avremmo vissuto insieme in quella stanza, mi misi in testa di volergli insegnare ad usare le lettere che componevano il loro nome per fargli creare altre parole:
“Rosa = raso, sora, osar, sarò... Ecco, visto che anche tu sai scrivere? Ora ti devi solo esercitare un po’ ... con l’aiuto di tua figlia, o di tua nipote... Dài che ce la puoi fare”!
E proprio Rosa in particolar modo stava sudando copiosamente, tanto era la sua concentrazione e la mia insistenza, ma ci stava riuscendo e questo le elettrizzava piacevolmente. Il concetto lo aveva capito, ma io sarei andata via l’indomani e lei avrebbe dovuto continuare ad esercitarsi se voleva che quell’inizio non fosse già la fine.
A tal proposito, durante il momento in cui facevamo i bagagli proprio Rosa fece la cernita dei fogli da tenere e quelli da buttare. Mentre teneva in mano quelli dove le avevo fatto fare le prove, mi fece vedere che stava scartando alcune fotocopie che le avevano lasciato le suore.
“Questi li butto. Che ci faccio? ...tanto non so ancora leggere!”, mi disse e fece per accartocciarli.
“Aspetta! Cos’è che stai buttando?” le chiesi d’istinto, e quando mi mostrò quei fogli mi resi subito conto che si trattava di qualcosa che volentieri avrei voluto avere. Così le chiesi di darli a me, ma per la verità si può proprio dire che glieli tolsi dalle mani mentre le parlavo. Era il testamento di Giovanni Paolo II.

Tanto più profondamente sento che mi trovo totalmente nelle Mani di Dio e resto continuamente a disposizione del mio Signore, affidandomi a Lui nella Sua Immacolata Madre (Totus Tuus)


Venerdì 22 Aprile 2005 (primo pomeriggio)

Dimessa dal Regina Apostolorum (Albano) fui dunque indirizzata al Policlinico di Tor Vergata (Roma). Infatti la mattina, durante la visita ai degenti, quando il primario entrò nella mia stanza telefonò direttamente al suo collega del PTV informandolo che sarei arrivata nel pomeriggio, con la TAC su cd e il foglio di dimissione.
Non mi sembrava vero essere fuori dall’ospedale. Mi stavo veramente godendo tutto quanto i miei occhi potevano vedere, i miei sensi percepire, il mio spirito godere... Era primavera e il sole mi scaldava fuori e dentro. E il solo pensiero che stavo tornando a casa mi riempiva letteralmente di gioia.

Casa mia casa mia, per piccina che tu sia,
tu mi sembri una badìa!

Guidava Mariasole, mentre io mi guardavo attorno e gioivo alla vista dei verdi prati della campagna, dei colori dei primi fiori, della gente indaffarata, di mia sorella, del mio compagno, del sole... il sole... il sole...
Prima di andare al PTV ci fermammo a casa per prepararmi qualcosa da portarmi per la degenza della settimana, e quasi quasi ci rimanevo se non fosse stato per l’insistenza del mio compagno e di mia sorella.
Arrivai a Roma soltanto nel tardo pomeriggio, dopo aver percorso molti chilometri in mezzo al traffico. Una gran fatica che aveva incrementato lo stress di Moshè alla guida, mentre io ero quasi contenta di quel ritardo! Dovevo pur sempre andare in un posto dove non volevo alloggiare neanche per una settimana, ma almeno avevo trascorso prima un paio d’ore di “libertà” e di “normalità”.

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