lunedì 31 gennaio 2011

Sanità e Santità (10)

Perdonare ma non dimenticare


Soltanto due giorni prima ero riuscita a fare l’esame Pet-Tac che era stato rimandato la prima volta perché si era verificato un guasto al macchinario (?!?). Quindi dopo aver digiunato dalla sera precedente e dopo aver atteso tutto il giorno al reparto di medicina nucleare l’ora del mio turno, non potei fare altro che rassegnarmi e accingermi a tornare in reparto degenza.
Mentre ero in attesa dell’ascensore per raggiungere il settimo piano incontrai il primario che mi doveva operare.
“Allora signora Colotti, si sente pronta per fare la broncoscopia”?
Probabilmente neanche lo sapeva che avevo saltato la Pet e io non glielo dissi, e non si ricordava che stavo a digiuno dalla sera prima ed ero in uno stato leggermente pietoso, e non poteva neanche immaginare che non avevo nessuna intenzione di rifare quell’esame (brutto brutto brutto!!).
“No, non oggi” gli risposi, ma dentro di me pensai “fossi matta!” Subito dopo arrivò l’ascensore che avevo chiamato per salire fino al settimo e così mi sbrigai a salutare il dottore e mi infilai nella scatola di metallo quasi di corsa.
Al reparto parlai con la caposala e le dissi che il macchinario per la Pet era fuori uso e che avrei dovuto aspettare l'indomani per fare l’esame, così lei mi informò che ci sarebbe voluta un’altra richiesta del medico per poter prendere un nuovo appuntamento con la medicina nucleare. E chissà quando lo avrebbero fissato...
Per la miseriaccia!! Stavo rischiando di dover fare un’altra broncoscopia e la settimana era quasi finita: non potevo uscire dall’ospedale senza aver fatto una Pet Tac così tornai giù e chiesi delucidazioni sul macchinario.
“E’ ancora fuori uso?”
“No siamo riusciti a ripararlo”.
“Ah bene, allora quando tocca a me? O dovrete inserirmi in un nuovo appuntamento? Spero proprio di no, visto che ero già in fila e non è certo dipeso da me se ho saltato il turno”.
“Ma non so se posso... ora vediamo...”
“Sia gentile lo trovi un posto tra un appuntamento e l’altro, è davvero urgente...”
“Come si chiama? ... Ah sì ecco il suo appuntamento mancato. Guardi, facciamo così: venga domani mattina a digiuno che la inserisco... ho anche la richiesta del suo medico qui... bisogna solo cambiare la data...”
“Grande!” pensai fra me e me, quindi presi il foglio che mi porse la ringrazia e felice la salutai.
Ovviamente il mio pensiero andò subito ad Abba e al suo volere.
Quando tornai in reparto e lo raccontai alla caposala lei non potè credere alle sue orecchie.
“Ma cosa gli hai detto per farti inserire così presto?”
Le spiegai com’era andata la conversazione mentre lei ripescò la copia della vecchia richiesta per farne fotocopia e renderla valida con il cambio data. Non so a chi dovesse andare la copia, forse bisognava inserirla nella mia cartella clinica, fatto sta che mentre la cercava per correggerla, continuava a manifestare la sua incredulità per il fatto che neanche una nuova richiesta dovesse essere inoltrata al reparto di medicina nucleare.
Dopo aver riportato il foglio in questione alla segretaria mi fermai ancora una volta in cappella per ringraziare Abba dell’assistenza. Poi sentii il telefono squillare: erano venuti a farmi visita ma non mi avevano trovato e quindi...
“Ma dove stai?”
“A pian terreno, perciò vediamoci in giardino che si sta meglio al sole”.
Mariasole mi disse che mio padre avrebbe avuto piacere a farmi visita e quindi mi chiese se poteva venire. Detta così sembra strano ma erano almeno vent’anni che non lo vedevo. Avevo solo sue sporadiche notizie, così come lui certamente le aveva di me.
Era giunto il tempo di appianare le divergenze familiari che mi avevano portato ad allontanarmi dal nucleo. Tuttavia, il dolore che questa vicenda mi aveva provocato era stato molto grande e quindi tentennai un po’ prima di decidermi a dire “sì”.
Venne il giorno dopo, con la mia “nuova e sconosciuta” sorellina mentre ero in attesa del mio turno per la PET.
In quel preciso momento io stavo dando una copia del testamento di Giovanni Paolo ad un signore che era in sala d’attesa con me, ma c’erano anche altre 20 persone circa. Non so perché scelsi proprio lui ... forse perché mi ricordava mio padre? Ci scambiai due parole prima di dargli le fotocopie e così venni a sapere che lui non credeva in Dio. Tuttavia gli chiesi ugualmente di leggere quei quattro fogli, visto che era in attesa e non aveva nient’altro da fare. Poi magari li avrebbe lasciati sulla sedia e qualcun altro gli avrebbe dato una letta... (passa parola!)
Più gli parlavo e più mi veniva in mente mio padre, ed è stato allora che l’ho visto entrare in sala. Mi ha riconosciuta subito. Ci siamo salutati ed è stato come se tutti quegli anni non fossero mai passati, ma la nuova sorellina e i miei capelli bianchi erano lì a testimoniare che era trascorso eccome tutto quel tempo. Ovviamente la piccola non poteva restare lì, reparto medicina nucleare. Per non parlare poi del fatto che un ospedale non è davvero il luogo più adatto ad una bambina! E quindi, dopo essere stati ammoniti dagli infermieri, uscimmo in corridoio.
Ero contenta sì, ma ero anche preoccupata per il mio esame: tempismo imperfetto direi! E se mi avessero chiamata mentre ero fuori?

Non riuscireste neanche ad immaginarlo quanto ho camminato e faticato (anche mentalmente) quel giorno! Ogni tanto andavo ad informarmi a che punto era il mio turno per poi tornare fuori a “gestire” la visita familiare. Insomma quell’incontro si stava svolgendo in modo un po’ troppo stressante per me. Non era così che mi aspettavo di viverlo, ma questo era quanto.
Stress... come al solito... non era cambiato niente, riflettei fra me e me.
Dunque per non far stare la bambina giù in quel reparto “tossico” dissi all'infermiera che sarei andata “un momento” su in degenza e che se nel frattempo fosse arrivato il mio turno di farmelo sapere telefonando alla caposala del reparto (della serie “mo’ torno”!).
Così, tornata su, ci accomodammo nella sala delle visite e facemmo una chiacchierata “normale” poi però, ad un certo punto, decisero di lasciarmi sola con la bambina mentre Mariasole e mio padre andarono a parlare con i medici (ah ah ah grande impresa!).
Loro non me lo dissero apertamente, ma quale motivo avrebbero avuto di allontanarsi se non quello?
La mia preoccupazione crebbe a dismisura (ed ecco aggiunto altro stress), perché se mi avessero chiamato proprio in quel momento come avrei potuto gestire la cosa?
Intanto la bambina sprigionava tutta la sua energia che io non ero in grado contenere e di ricambiare nella giusta misura, e mentre la seguivo si affacciò la caposala per dirmi che avevano chiamato da medicina nucleare.
Amen!
Loro erano spariti, il mio turno era arrivato, la bambina non poteva essere lasciata sola e non poteva venire con me... “E mo’ come ne esco?” pensai.
Mi venne in mente di lasciarla in stanza con una delle altre degenti che però non era disponibile (aveva visita parenti) e quindi alla fine decisi di portarla con me (non potevo perdere un’altro appuntamento e mi stavo chiedendo perché mi avessero messo in questa situazione:
“Ma tu guarda un po’! sono vent’anni che non ci vediamo e già mi fai trovare in difficoltà? ... non è cambiato proprio niente, valà!” continuai a riflettere, ma subito dopo mi dissi che comunque fosse, cambiato o non cambiato, il perdono doveva significare cominciare. Il passato era passato ed era tempo di nuovi rapporti... Certo che però questo nuovo rapporto stava cominciando maluccio eh? ma avrei avuto modo e tempo di aggiustarlo. Io non ero più la stessa persona di ieri e questo mio padre doveva capirlo.
Quando scesi giù parlai di nuovo con la segretaria e le chiesi se poteva scambiare il mio turno con quello della persona successiva, visto che mi avevano lasciato la bambina e non sapevo come fare, e anche questa richiesta fu accolta (meno male!).
Dopo un quarto d’ora circa finalmente vidi arrivare mio padre e mia sorella. Anche loro avevano camminato parecchio visto che non ci avevano trovate dove ci avevano lasciate, ma chilometri a parte, questa vicenda mi aveva insegnato che anche nelle situazioni critiche sapevo sbrigarmela da “sola” e al meglio!
Sola?!
In verità credo con tutta me stessa che non siamo mai lasciati soli, e che spesso non ce ne rendiamo neanche conto. Ma a proposito di questa mia convinzione, non c’è niente di meglio che leggere una bellissima poesia che esprime perfettamente quanto ho appena detto.
La prima volta che l’ho letta io è stato proprio durante il ricovero al PTV. L’ho trovata mentre sbirciavo tra gli scritti apposti nella bacheca dell’atrio della cappella.
Qualche anno dopo mi è stata inviata via email dall’amico di un amico che nulla poteva sapere di me. E siccome (ormai è risaputo) per me le coincidenze non sono mai soltanto semplici casualità, ho deciso di trascriverla qui di seguito.


Orme

Una notte una donna fece un sogno.
Sognò di passeggiare lungo la spiaggia con il Signore.
In cielo balenavano scene della sua vita.
Per ciascuna scena notò due serie di orme sulla sabbia:
una apparteneva a lei e l'altra al Signore.
Quando gli fu balenata davanti agli occhi l'ultima scena,
si voltò a guardare le orme e notò che molte volte
lungo il cammino vi era una sola serie d'impronte.
Notò anche che questo avveniva
durante i periodi più sfavorevoli e più tristi della sua vita.
Ne rimase disorientata e interrogò il Signore.
"Signore, tu hai detto che se io avessi deciso di seguirti,
tu avresti camminato tutta la strada accanto a me,
ma io ho notato che durante i periodi più difficili della mia vita vi era una sola serie di orme.
Non capisco perché, quando avevo più bisogno di te, mi hai abbandonata".
Il Signore rispose:
"Mio amata figlia, io ti voglio bene e non ti abbandonerei mai.
Durante i tuoi periodi di dolore e sofferenza,
quando vedi solo una serie di orme,
quelli sono i periodi in cui io ti ho portato in braccio".

sabato 29 gennaio 2011

Sanità e Santità (9)

Incontro con la “senzanaso”


Ormai ero convinta che in quell’ospedale c’erano un prete positivo e uno negativo, ed era proprio quello negativo che si “affannava” in tenuta ginnica a passare nelle stanze dei degenti. Lo vidi spesso soffermarsi più a lungo del solito in una delle stanze del mio reparto dove era ospitata una ragazza in gravi condizioni. Mi capitò di sentire da “Stella del Mattino” che la ragazza secondo lei non sarebbe riuscita a passare la notte.
Non potevo sopportare l’idea che il fosse il prete negativo a darle l’estrema unzione. Pensavo che l’anima di Patrizia (questo era il nome della ragazza) non sarebbe stata inviata nelle braccia di Gesù.
Non trovai subito il coraggio di avvicinarmi a lei e chiesi alla madre di dirmi il nome di sua figlia perché volevo pregare per lei. La donna era davvero affranta, molto provata. Quando seppe della mia intenzione, pur se con riluttanza (anche lei aveva perso la Fiducia) mi disse che sua figlia si chiamava Patrizia e che non era giusto che stesse in quello stato.
Mi diressi giù in cappella e pregai con tutto il cuore che fosse Gesù a ricevere la sua anima.
“Se questo è il tuo volere per la sorte di Patrizia, per favore sii tu stesso ad accoglierla. Non lasciarla in altre mani...”
Lo supplicai di occuparsi direttamente della ragazza e di non permettere a quel prete di deviare il suo cammino prossimo. Oltretutto lui non portava alcun conforto (se fosse stato altrimenti la madre, pur se affranta dal dolore di dover seppellire presto sua figlia sarebbe stata perlomeno leggermente sollevata ,mentre invece io l’avevo trovata anche sfiduciata, arrabbiata, impaurita...).
Quando tornai su in reparto trovai pure il coraggio di andare a salutare Patrizia prima che fosse troppo tardi e potessi poi avere il rimpianto di non averlo fatto (troppe volte è capitato questo!). Naturalmente chiesi il permesso di sua madre e degli altri parenti che erano intorno al suo letto. Le poggiai la mia mano sulla sua con l’intenzione di trasmetterle quella fiducia che sentivo dentro di me con la speranza che la percepisse. La carezzai. Era freddissima. Il calore emanato dalla mia mano parve darle fastidio e con fatica si liberò. Era stanca di vegetare, di trovarsi in quella condizione.
“Ciao” le dissi semplicemente, poi salutai tutti e me ne andai. Non smisi di chiedere a Gesù di attenderla...
Quella è stata la prima volta in vita mia che ho percepito forte la presenza della “senzanaso” (così mio nonno aveva soprannominato la morte!). La sensazione che ho provato era mista a tante altre: paura di vivere un travaglio del genere, dispiacere per quella ragazza così giovane, dispiacere per il dolore dei genitori e fratelli, ineluttabilità, normalità di fronte alla “sensanaso” che tutti prima o poi dobbiamo affrontare...
Il cancro aveva sconfitto la vitalità di Patrizia. Ma cos’era questo cancro che prima conoscevo soltanto di nome e ora invece era presente anche nella mia vita? E non solo! Nello stesso periodo in cui ero in ospedale per gli accertamenti del caso, venni a sapere che anche altre persone a me vicine erano state colpite da questa malattia terribile.
Mia cognata aveva il cancro.
Quattro miei cari amici avevano il cancro.
Il padre di mio cognato aveva il cancro.
Di noi, soltanto in tre ce la siamo cavata. Gli altri non sono riuscita a salutarli poco prima che se ne andassero: non era stato per paura, ma razionalmente nemmeno so spiegare bene perché ho rifiutato di visitarli quando stavano per intraprendere il grande viaggio di ritorno. Soltanto mia cognata sono riuscita a salutare pochi giorni prima che partisse, ma già non parlava più. Dormiva sotto l’effetto della morfina.
Nel momento esatto in cui lei se ne andò io mi trovavo a 40 km di distanza, e pur senza una telefonata venni a saperlo ugualmente, attraverso un messaggio impalpabile. Probabilmente si diventa più sensibili o più percettivi in certi particolari frangenti di vita...
Con lei avevo avuto un rapporto particolarmente felice. Ci eravamo piaciute già dal primo incontro, ci sentivamo intellettualmente affini. Abbiamo cominciato quasi da subito a comunicare scrivendoci lettere. Un modo insolito lo so. Anzi, di solito fra cognate non si va neanche tanto d’accordo, e invece noi ci scrivevamo le missive! Ma d’altra parte era l’unico mezzo che avevamo a disposizione per dedicarci con calma e concentrazione l’una all’altra, visto che quando ci incontravamo (durante i pranzi di famiglia) non riuscivamo a starcene per conto nostro a chiacchierare di cose che interessavano ad entrambe. Infatti, pur se non potevamo fare a meno di ritagliarci pochi minuti per appartarci e continuare le nostre “chiacchierate intellettuali” (così le chiamavamo noi), gli altri parenti ci sgridavano perché non partecipavamo alla grande confusione del momento. Quella che si può venire a creare quando si sta in venti e anche di più (fra adulti e bambini) in una casa.
Lei era stata colpita da un tipo di cancro diverso da quello che aveva colpito me, e diverso era stato anche quello che aveva stravolto la vita dei miei amici e del padre di mio cognato. Continuavo a chiedermi: ma cos’è il cancro? Dovevo informarmi di più. Dovevo saperne di più. Sapere è potere. E sapere forse mi avrebbe un po’ tranquillizzata, o forse mi avrebbe spronata ad agire per il meglio, in qualche modo a me ancora sconosciuto. Chi mi aiutò in questo fu ancora una volta Mariasole. Lei già navigava in internet (io no!) e quindi mi fece leggere man mano tutto quello che riusciva a trovare sull’argomento e che rispondesse alle domande che mi ponevo.
Cominciando dall’ABC compresi che la parola “tumore” è un vocabolo generico che non necessariamente significa cancro: un tumore benigno non è un cancro. Anche un neo è definito tumore! Dunque, il tumore può essere benigno o maligno, ma è solo nel secondo caso che viene usato il vocabolo “cancro”.
Il cancro si manifesta in tanti "modelli" diversi e non fa differenza fra gli animali quadrupedi o bipedi.
Il cancro è un anomalo sviluppo cellulare. Le cellule che formano l’essere vivente si moltiplicano per loro natura, seguendo il corso dell’evoluzione vitale.
Il cancro inganna il corpo in modo che siano le "cellule della morte" a moltiplicarsi e non le cellule della vita.
Aaahhh! Ero soltanto agli inizi della conoscenza più approfondita di questa malattia oscura e avevo già compreso che... il cancro è un truffatore!!!

giovedì 27 gennaio 2011

Sanità e Santità (8)

La gioia di condividere un’esperienza eterea


Avevo perso il sonno già dalla prima notte trascorsa al PTV (ovvero Policlinico Tor Vergata). Non riuscivo più a dormire se non per un quarto d’ora al massimo, anche quando decisi di prendere il sonnifero.
Il climatizzatore aveva senz’ombra di dubbio influito sul mio sonno. Continuavano a ripetermi che poteva essere regolato in ogni stanza ma non era affatto vero. Il problema che mi ha creato è stato grande e permanente. Tutt’oggi dormo poco e male: me le sono scordate le sei-otto ore consecutive e serene degli anni precedenti! Mi svegliavo di scatto dopo un breve pisolino e poi non riuscivo più ad addormentarmi. Questa era un’altra paura aggiunta che mi faceva desistere dall'essere operata lì. Pensavo che se mi fosse capitato anche dopo l’operazione  e con quei tubi infilati nel torace per il drenaggio, mi venivano i brividi solo ad immaginarlo quanto dolore avrei provato Non riuscivo neanche a sopportarne l’idea!
Comunque a causa di ciò mi resi conto che non mi reggevo più in piedi per la stanchezza, e così scelsi un’alternativa: non dormire nella mia stanza (dove ero obbligata a tenere la finestra chiusa per rispettare la co-degente che dormiva nell’altro letto e che era stata appena operata), prendere il cuscino e la copertina e trasferirmi nella saletta dei visitatori. Qui, dopo aver spalancato la finestra, riuscivo perlomeno a stemperare l’effetto del climatizzatore e a non sentire il ronzio continuo che sprigionava. In queste condizioni riuscivo giusto a farmi un paio d’ore di sonno alla meno peggio. Ovviamente questo mio atteggiamento era visto in modo bizzarro dalle infermiere, dai medici e non per ultimo dai vigilantes che mi raggiungevano nella stanza degli ospiti per vedere se stavo fumando.
Eh già, era davvero inconcepibile questo modo di fare ma non me ne importava di quello che pensavano gli altri: stavo seguendo “la via del mondo non palpabile” e dare spiegazioni non serviva proprio a nulla se non a farmi deridere e ad essere trattata come una malata stressata che non era in grado di intendere e di volere!

Quando andai all’ufficio della direzione amministrativa notai che era caldo, se messo a confronto con le nostre stanze. Che forse per loro soltanto funzionava il timer del climatizzatore?
Mentre consegnai la lista delle lamentele all’addetto competente lo feci presente, ma anche lui come tutti gli altri mi rispose che in ogni singola stanza si poteva regolare (però non era vero perché neanche le infermiere che mi spiegarono come fare riuscirono ad alzare la temperatura).
E a proposito delle infermiere, nella lista avevo segnalato pure che alcune di loro che si alternavano nei turni al reparto di pneumologia, sbagliavano a dare le medicine ed erano lascive, distratte, non proprio adatte ad una professione così importante. Questo loro vennero a saperlo senza che uscisse dalla mia bocca, e proprio quelle infermiere lascive, dietro questa segnalazione finalmente cambiarono atteggiamento, ma non senza avermi chiesto se avessi fatto il loro nome.
“No, per il momento non l’ho fatto ma siate meno sciattone nello svolgimento del vostro importante lavoro. Non sono tanto carogna da pensare che chi sbaglia non possa avere una seconda possibilità di riscatto, ma ricordate che errare è umano e perseverare è diabolico!”
Loro furono più attente e non mi diedero più una risposta del tipo: “ah si ti ho dato l’antibiotico sbagliato ma... non è importante sai? è solo un antibiotico, non fa nulla!” e io non ebbi più a dir loro: “se non fa nulla prenditene uno tu adesso! ecco manda giù questo!”
E segnalai pure che per quattro giorni nessuno mi aveva misurato la temperatura perché (a dire delle infermiere) non c’erano termometri disponibili. Che avevo freddo e non c’era una copertina. Che il cibo faceva letteralmente schifo e a volte era addirittura crudo (quando trattasi di pollo/tacchino la cosa si fa pericolosa eh!?).
Non so se il modulo da me compilato sia stato preso in considerazione (ho seri dubbi in proposito), però quell’azione mi portò a conoscere una persona che a distanza di 5 anni (tanti ne sono passati da allora) ancora ricordo con piacere.
Denise, una donna francese (bella dentro e fuori) che si trovava quel giorno nello stesso ufficio in cui mi ero recata io e per lo stesso motivo: consegnare il-modulo-delle-lamentele. Non ci misi molto a capire che si era davvero stancata di essere presa in giro dalla burocrazia praticata in quel reparto dell’ospedale, infatti, quando le dissero “compili questo modulo” mentre io continuavo a completare il mio, la sentii esprimere verbalmente la sua furia anche se molto composta:
“Sono stanca di riempire moduli, conoscete già bene il motivo che mi ha spinta a venire qui. Questo è il terzo modulo che mi date da compilare in risposta a quanto lamento. Possibile che non mi resta che denunciarvi ai carabinieri per farmi ascoltare? Adesso basta! La mia pazienza è finita”.
E fu proprio questo suo sfogo a portarci al nostro primo contatto. Presi la “palla al balzo” e cominciai ad interagire con lei, a chiederle informazioni in primis, avendo sentito che già aveva vissuto la “trafila burocratica dalla facciata gentile che a nessun risultato portava”. Dapprima restò sulle sue e quindi le raccontai prima dei problemi che io ero venuta a presentare in quell’ufficio, pur immaginando che forse non sarebbe servito a nulla. E infine conclusi con una frase classica (se vogliamo definirla così): “stiamo davvero solo nelle mani di Abba”.

Abba.
Quando mi sentì chiamare Dio con quella parola (Abba = Padre), Denise si rilassò immediatamente e mi sorrise con la speranza negli occhi. Poi cominciò a raccontarmi la sua disavventura.
Mi disse che anche lei aveva avuto problemi con l'équipe medica ed era arrivata addirittura a pensare alla denuncia perché, dopo avermi parlato di come era stata gestita la malattia del marito (cancro anche per lui), dopo essersi lamentata, dopo aver compilato moduli più e più volte, comunque non era stata ascoltata. Era stato tutto questo che l’aveva fatta infuriare (ma sempre con molta classe eh?! classe francese!).
In quella stanza, in quel momento, aveva deciso di firmare la dimissione e portare via il marito da lì per andare in Francia, dove credeva fermamente che sarebbe andata meglio.
In effetti in Francia hanno un’altro “metodo” per trattare il cancro. Non sono molto ferrata riguardo a questo, è vero, ma una cosa la so per certa: quando si tratta di cancro alla mammella, la grossa differenza che c’è tra il metodo italiano e quello francese è che nel primo paese c’è la mastectomia sicura, nel secondo c’è un trattamento curativo a base ormonale (che poi è simile a quello americano!).
Abba.
Entrambe avevamo una gran fiducia in Lui e quindi dopo esserci sfogate un po’ riguardo il trattamento ricevuto da alcune persone che lavoravano nell’ospedale (voglio augurarmi che non sia il modus operandi del PTV!), uscendo dall’ufficio amministrativo decidemmo assieme di passare in cappella per parlare con Abba.
Mentre percorrevamo corridoi e scale per raggiungere la cappella le raccontai del mio sogno, della Fiducia ritrovata, della decisione che avevo presa, delle risposte che Abba mi faceva trovare ad ogni visita che Gli facevo...
Ad un certo punto le arriva una telefonata. Era di suo marito che le chiedeva dove fosse. Lei gli raccontò tutto quanto aveva fatto e che aveva deciso di fare, e quando gli disse anche del nostro incontro e del fatto che avevo nominato Abba notai il suo tono di voce colmo di una speranza che intendeva trasmettergli. Ma quando la telefonata terminò, Denise restò delusa dal fatto che non era riuscita a infondergli quella fiducia che si era risvegliata in lei.
“Io vengo spesso a pregare qui da quando mio marito è stato ricoverato”, mi confessò facendomi percepire la sua tranquillità.
A me sembrò che valutasse quel nostro incontro casuale come una coincidenza che non considerava proprio tale. Percepivo un’affinità tra le nostre anime e percepivo che anche per lei era così.
“Ecco, è qui che trovo le risposte alle mie domande. Leggiamo quale messaggio c’è per noi”, le dissi quando mi avvicinai al Libro aperto posto sul leggìo vicino l’altare.
Non ricordo esattamente quale parabola trovammo quel giorno perciò non la posso citare con precisione, però ricordo che narrava dell’importanza del credere spontaneamente (senza essere convinti da qualcun altro), delle disposizioni di Gesù dettate ai suoi apostoli riguardo al fatto che non dovevano convertire nessuno perché chi avesse voluto seguirlo avrebbe dovuto farlo spontaneamente. Me lo ricordo perché poi Denise mi disse che suo marito era un cattolico (di nascita) ma non era credente, e che si era già rassegnato alle conseguenze che dava per scontate riguardo al “tu-muori” che gli avevano diagnosticato.
Il messaggio di Abba l’avevamo letto e comprendemmo perfettamente che non si poteva convincere una persona a ritrovare la Fiducia, che non si doveva insistere cercando di fargli trovare “il contenitore giusto per poter attingere alle grazie della Sua misericordia”.
La Fiducia o c’è o non c’è. In suo marito non c’era e lei capì che non poteva farci nulla (con suo grande rammarico) ma comunque fosse non perse la speranza, decisa com’era a continuare a parlargli di Abba (almeno questo poteva farlo!).

A proposito del messaggio in questione, mi venne subito in mente il particolare delle campane sul telefono di Moshé... Lui è di un’altra religione e quindi quel messaggio  che trovammo Denise e io, era valido anche per me, nel senso che non potevo e non dovevo (mai) “convincerlo a cambiare parrocchia”, ma questo lo sapevo già. Noi due conviviamo da vent’anni in pace e col rispetto delle nostre credenze, però potevo sempre renderlo partecipe della mia fede di “credente atipica” (quale mi definisco a tutt’oggi), senza subire alcuna forma di pregiudizio. E viceversa naturalmente.
Per me quel messaggio non era altro che una conferma, per Denise era una presa di coscienza.
Subito dopo la sua telefonata trovammo sulle panche due libricini che raccontavano la storia di Suor Faustina, del suo diario, del suo incontro con Gesù della Misericordia, della sua devozione e  della Fiducia, delle sue preghiere personalizzate...
I libricini erano due e ci sembrò che fossero lì proprio per noi. Ne prendemmo uno ciascuno e fu in quel momento che Denise mi chiese di scambiarci i numeri di telefono. Anche io non volevo perderla di vista, e proprio su quei due libretti l’un l’altra trascrivemmo i nostri numeri. Eravamo entrambe contente di esserci incontrate in quel frangente di vita molto particolare.
Eravamo entrambe contente di aver potuto condividere una esperienza impalpabile, sì, ma che sapevamo essere reale perché era stato con il senso della realtà che l’avevamo vissuta.Così l’avevamo percepita, passo dopo passo, durante la mattina che avevamo trascorso assieme.
Quel libricino ce l’ho ancora. Sulla copertina c’è la rappresentazione di Gesù della Misericordia e di Suor Faustina (entrambi poggiano i piedi sul mondo), dietro c’è la foto di Giovanni Paolo II mentre benedice il quadro del Gesù Misericordioso, ed è stato proprio sulla prima pagina che ho annotato, oltre al numero telefonico di Denise, anche una speciale e inedita preghiera: Abba Ra Heim.

Padre nostro celeste,
Alleluia.
Venga il tuo regno celeste sulla terra,
Alleluia.
Sia obbedita su questa terra la tua legge celeste,
Alleluia.
Proteggici dal caos e provvedi ai nostri bisogni,
Alleluia.
Amen.

mercoledì 26 gennaio 2011

Sanità e Santità (7)

La domenica giunse e invece della ragazza si presentò quello che considerai istintivamente un brav’uomo. Fu lui che m’impartì la comunione nella stanza che mi ospitava. Era un prete di colore (nero, sì, ma molto molto positivo). L’avevo percepito subito che era una gran bella persona.  E l'impressione restò anche quando ebbi modo d’incontrarlo due giorni dopo.
Fu un incontro fugace ma veramente intenso.
Un incontro senza parole eppure loquace. Un incontro fatto di uno sguardo e un gesto significativo della mano: quel pollice all’insù a suggerirmi coraggio e fiducia perché tutto sarebbe andato bene.
Fui davvero contenta di aver ricevuto la comunione da lui e non dal suo collega (bianco, sì, ma molto molto negativo). Questo lo incontrai due giorni dopo mentre faceva il giro delle stanze (andava a trovare tutti gli ammalati e per ognuno aveva una parola, ma quando parlò a me lo fece a raffica, dandomi disposizioni su come comportarmi e su cosa fare, domandandomi pure come stavo, sì, ma senza neanche ascoltare le mie risposte!
La sensazione che ne ebbi fu ovviamente negativa (e anche “a pelle” lo percepii così). Quando lo ascoltai rivolgersi a me in un modo così arrogante non potei fare a meno di interromperlo e rispondergli a tono visto che non voleva lasciarmi parlare.
Pensai, “ma se vuoi fare un monologo parlati allo specchio no?!”
La mia compagna di stanza invece ci si trovava tanto bene con questo prete! Anzi, di più: vidi che in poco tempo avevano in qualche modo creato un rapporto di comunicazione tra loro (di certo lei si fidava molto di lui...).
Inevitabilmente tornai a riflettere ancora sul mio sogno, ma senza dimenticare il racconto “rassicurante” dell’esperienza che aveva vissuto la mia compagna di stanza qualche anno prima.
“Eppure DEVE averlo un significato tutto questo!” pensai sempre più convinta che le coincidenze non sono mai solo semplici coincidenze. E a proposito di questo (delle coincidenze, intendo!) a togliermi qualche pur se minimo dubbio erano state anche due cose in particolare:  un libro che il ragazzo nella stanza accanto alla mia stava leggendo, “Angeli e Demoni” di D. Brown che ho avuto modo di leggere un paio di settimane più tardi, e le riviste-gossip che mia nipote mi aveva portato da leggere “tanto per passare il tempo senza pensare troppo”. In uno di questi giornali c’era anche l’articolo sulle “bestie di satana” e la mia compagna di stanza, dopo avermi sentita commentare in modo totalmente negativo, si è praticamente sbrigata a chiedermele in prestito. Io non mi sono fatta pregare mica tanto sa?! Le riviste gliele ho date praticamente tutte, tranne una perché c'erano diverse pagine che raccontavano la storia del “mio” Giovanni Paolo, e naturalmente ho preferito tenerla.
Le coincidenze, si...

Insomma, in quell’ospedale non volevano ascoltarmi, né il prete (bianco) nè i medici: erano tre giorni che mi trovavo lì e ancora non avevo incontrato il chirurgo che mi stava “preparando” per poi operarmi. Probabilmente voleva conoscermi soltanto in sala operatoria, ma questo non era affatto consolante!
Alle “Monachelle” mi davano soltanto un antiemorragico (continuavo ad espettorare sangue se lo smettevo di prendere) ed un protettore per lo stomaco, mentre qui al PTV già dalla mattina mi avevano prescritto molte medicine (le dovevo inghiottire mattina e sera). Le prendevo, sì, ma avevo già scelto di voler essere informata e perciò chiesi agli infermieri cosa mi stessero propinando e a cosa servisse ogni singola pasticca che dovevo ingurgitare. Ad ogni risposta prendevo appunti così da avere un quadro chiaro (per me, ovviamente!):
Antra= protezione per lo stomaco, forma a capsula;
Eritrocitina= antibiotico, forma ovale con la lettera P al centro;
Ciproxin= antibiotico, forma rotonda con le lettere F su una metà e C sull’altra;
Urbason= cortisone, forma rotonda con una croce per la divisione a quarti (ma io la dovevo prendere intera);
Tranex= antiemorragico, forma liquida in fiale;
Micostatin= per curare la candida orale (che mi aveva scatenato il cortisone), forma liquida da usare per farne sciacqui.
Ed è stato proprio grazie a questa lista e relativo disegnino e descrizione, che in seguito sono riuscita ad accorgermi che le infermiere (quelle che erano un bel po’ sciattone!) mi stavano rifilando altro genere di pasticche. Questo è capitato più di una volta!. Ovviamente glielo feci notare lamentandomi con loro, ma non in modo passivo bensì attivo e cioè, chiedendo loro (con tono imperativo) di essere più attente e non di meno ricordandogli che il lavoro d’infermiera è un lavoro talmente importante che può decidere anche il fallimento o il successo dell’operato del dottore.

La “scuola-Monachelle” mi era stata molto utile, talmente utile che non riuscivo a tagliare i contatti neanche dopo essere stata ricoverata in un’altra struttura. Infatti continuavo a telefonargli per avere consigli e specialmente, se non soprattutto, calore umano.

“Professore, lo sa che ancora non ho visto il dottore a cui mi ha affidata?!”. “Io vorrei andare via di qui, non riesco a fidarmi di questa struttura... è talmente dispersiva! Eppoi non riesco più a dormire a causa dell’aria condizionata”. “Lo sa che non mi hanno ancora misurato la temperatura? Le infermiere dicono di non avere termometri... com’è possibile? Fa tanto freddo qui...”

Ebbene sì, telefonavo loro per ogni cosa! E parlare con gli infermieri o con i dottori dell’ospedale di Albano per me era la stessa cosa, perché tutti erano in contatto l’uno con l’altro. Sempre. E non era soltanto la mia impressione che facessero corpo unico e che tutti sapevano il fatto loro: era un dato di fatto.
Mi ci vollero un paio d’anni prima di tagliare il cordone ombelicale con la pneumologia delle “Monachelle”, ma per tutto il tempo in cui ho mantenuto il contatto ho continuato a dar loro mie notizie, così come sentivo fosse giusto che facessi (volevo anche dargli un po’ di soddisfazione per come si stava svolgendo la storia di una persona che avevano seguita e instradata sulla via della guarigione!).

Al PTV neanche il cibo era buono. Riuscivo giusto a fare una bella colazione abbondante (chiedevo sempre il bis perché sapevo che avrei saltato pranzo e cena oppure avrei mangiato soltanto la frutta, o latticini quando erano presenti nella portata).
Come si potevano servire cibi precotti che sapevano tutti di cicoria e non sempre erano cotti bene?
Eh sì, sapevano di cicoria (forse a causa di un disinfettante o che so io...): il petto di pollo sapeva di cicoria, il formaggio sapeva di cicoria, anche gli insaccati sapevano di cicoria...
Alle “Monachelle” tutto veniva servito in piatti di coccio: minestre fumanti, pollo con patate ben cotti, frutta, dolce... Non c’era proprio paragone!
Arrivai persino a chiedere ad altri pazienti se anche per loro il cibo avesse il sapore di cicoria e se anche loro avessero le braccia livide provocate dalle infermiere inesperte che facevano i vari prelievi o iniezioni.
Ebbene, dalle loro dichiarazioni seppi che non era soltanto una mia fissazione sia il sapore del cibo e sia i lividi sulle braccia, ma avevano paura a parlarne (dovevano pur sempre passare per la camera operatoria anche loro!!).

Nella stanza c’era una bacheca con un modulo pre-stampato da utilizzare per esprimere il proprio parere sulla qualità dell’ospedale. Mi ricordai che alle “Monachelle” avevo dato tutte risposte positive, ma qui di positivo c’era solo la bella struttura (mmmmhhh... ciò che è bello non sempre balla bene!)
Decisi quindi di recarmi alla direzione amministrativa per consegnare personalmente la mia lista di risposte, tutte negative. L’elenco era talmente lungo che, oltre ad aver compilato il modulo, aggiunsi anche tante altre cose fino ad arrivare a consegnare due pagine! Tra tutte le cose da me lamentate, c’era anche il fatto di non essere riuscita a contattare il professore che doveva operarmi, in tre giorni dal mio arrivo in reparto. Lui non aveva neanche sbirciato la TAC che gli avevo portato, assieme ad altri documenti. In pratica l’ho dovuto tampinare (nel vero senso della parola!) per parlare con lui e chiedergli il perché di tutte quelle medicine e sottoporgli tante altre domande alle quali, invece di una risposta avevo ricevuto rimproveri per il fastidio che gli stavo procurando. E infine sono stata trattata anche da psicolabile (secondo lui non ero nel pieno delle mie facoltà!), per non parlare del fatto che mi aveva tolto senza ragione anche le medicine:
“Ah non vuoi prenderle? Allora questa la togliamo, questa la togliamo e togliamo anche questa...”
“Veramente io volevo soltanto sapere come mai prendo il cortisone e perché l’antibiotico...”
“Ma sì certo, non ce n’è bisogno quindi eliminiamo tutto...” mi rispose totalmente indispettito dal mio interesse. E con quel “tutto” mi tolse anche il Tranex che mi serviva a non farmi espettorare sangue oltremodo (e chissenefrega pensai di risposta, che tanto più tardi riuscii lo stesso a farmelo dare da Stella del Mattino dopo averle spiegato tutto).

Cominciate a capire perché in quella struttura non mi sentivo sicura? Eppoi non ero trattata come un utente. E non è proprio una bella sensazione quella di sentirsi un numero e non una persona che si rivolge ad un’azienda per risolvere un problema. Quando l’azienda non ci soddisfa nelle prestazioni bisogna cambiarla no?! mbéh era quello che avevo deciso di fare già durante i primi giorni!
Infatti tenevo sempre il bagaglio mezzo pronto perché per me qualsiasi momento sarebbe stato buono per andarmene, anche se sapevo che non avrei potuto lasciare la struttura così “di bella” perché sarei stata denunciata. Dovevo firmare l’uscita e volevo farlo, ma non è che sia stato così facile, specialmente perché i parenti premevano che restassi per operarmi (e anche i medici e le infermiere!). Mi dicevano che non stavo bene e che perciò non ero in grado di decidere quale fosse la cosa migliore per me. Neanche loro volevano ascoltarmi, ma posso capirli: erano angosciati e timorosi dell’evoluzione che avrebbe potuto avere il cancro.

Ricordo che mi fecero visita Mariasole, Claraluna e mio cognato e che avevo preferito fare due chiacchiere al sole invece di restare nella stanza di degenza:
“Devo andarmene di qui... Ho paura a farmi operare... Ho fatto quel brutto sogno che secondo me mi ha messa in guardia...”
“Ma cosa dici? Non scherzare! Eppoi dove credi di andare? Vuoi cambiare un altro ospedale? Ma dove...” mi rimproverava Claraluna che pure ai sogni dava retta eccome.
E mio cognato che le diceva:
“Ma scusa, se lei si sente più sicura così...”
“Ma cosa dici pure tu? Che deve ricominciare daccapo? Intanto il tempo passa e la cosa si aggrava...”
Mariasole invece, mentre ascoltava tutto il battibecco tra Claraluna, Art e me, passeggiando lungo il vialetto bordato di trifoglio ad un certo punto si chinò prese un quadrifoglio e me lo porse dicendomi:
“Io credo in quello che dici e che senti. E secondo me questa è una prova che devi seguire il tuo istinto e il tuo intuito”.
Quando vidi che si trattava di un quadrifoglio fui colta da uno stato di meraviglia, anche se questo (a mio parere e anche secondo la percezione di Mariasole) confermava ciò che "sentivo" ma che non potevo dimostrare.
Come era riuscita Mariasole a trovare proprio un quadrifoglio tra tanti fili d’erba e trifogli? E per di più mentre camminava e ascoltava quel battibecco? Per lei e per me era stata più che una coincidenza. Andava oltre il normale pensare, oltre la razionalità. E come tale lo accettai, lo accettammo.
Oh, per la cronaca: il quadrifoglio lo conservo ancora in ricordo di quel momento speciale.
Quel ritrovamento e quel gesto accompagnato dalla breve e significativa frase di Mariasole, ebbero il potere di chiudere quel discorso-senza-senso (anche se Claraluna continuava a marcarmi stretta!), ma fu così che spalancai la finestra che si affacciava sull’altra parte del mondo, quello non materiale. Finalmente qualcuno cominciava a comprendere che il mio non era proprio “lo sproloquio di una malata”.
Con i parenti di Moshé fu ancora più difficile comunicare la mia scelta. Infatti quando vennero a farmi visita quasi mi assalirono (erano almeno in dieci e parlavano tutti assieme!).
Difficile, davvero una situazione difficile da gestire.
M’era venuto il mal di gola inutilmente perché non ascoltavano (ma questo fa parte della loro natura). Alla fine mi decisi ad alzare leggermente la voce per farmi sentire:
“Se volete sapere le ragioni di questa mia decisione allora statevi un po’ zitti e lasciatemi parlare, altrimenti fa lo stesso. Io l’ho già presa la mia decisione!”.
Ecco, bastò questa frase a farli chetare un attimo e a questo punto spiegai le mie ragioni, e quando arrivò il momento di raccontare anche il sogno mi rivolsi in particolar modo a mia cognata Marina che era già arrivata alla fase chemioterapia. E feci bene perché soltanto lei riuscì a comprendermi veramente...
“La tua fede ti aiuterà a superare questo momento” mi disse mentre tutti gli altri si accavallavano l’un l’altro per dirmi che non potevo dare retta ad un sogno, che sbagliavo, che era pericoloso aspettare ancora, che stavo male e che dovevo restare assolutamente lì, che quello era un bel posto (...) Non avevano ascoltato niente di quanto avevo detto: che ancora dovevo parlare col medico, che non mangiavo, che non dormivo se non per qualche minuto e poi mi svegliavo di scatto, che non mi sentivo sicura... Non avevano sentito una sola parola delle mie argomentazioni!
Moshé non disse nulla perché almeno un po’ si fidava del mio istinto, delle mie intuizioni “stravaganti” e quando i suoi fratelli gli dissero in modo concitato che doveva farmi ragionare, li invitai tutti a scendere giù in giardino per andare a respirare una boccata d’aria. In quella stanza c’era il caos ormai.
Il mio compagno mi prese sotto braccio e scendemmo tutti. Il tragitto per l’uscita comprendeva il passaggio obbligatorio davanti la cappella e quando giungemmo a quel punto il telefono di Moshé cominciò a squillare solo che al posto del nome o del numero della chiamata, sullo schermo era apparso il disegno delle campane. Ovviamente non dissi nulla riguardo a cosa pensavo di questa coincidenza ma mi ripromisi di tornare a leggere il messaggio del giorno. Quella mattina ancora non lo avevo fatto!

Sanità e Santità (6)

Seduta su di un lato del mio letto stavo singhiozzando come non avevo mai fatto prima. La mia compagna di stanza non si accorse di nulla. Russava dormendo beata sotto l’effetto dell’antidolorifico post operatorio, ma non era stato quello il motivo per cui non l’avevo svegliata. Venni a conoscenza del “mistero” soltanto qualche ora dopo: era diventata sorda da qualche anno e quindi usava un apparecchio durante il giorno mentre di notte lo toglieva.
Comunque, per non svegliarla uscii dalla camera e ci ritornai soltanto quando arrivò il momento della colazione. Lei era in bagno e quando ne uscì mi vide con gli occhi rossi e gonfi per il pianto.
“Ma dov’eri? Cosa ti è successo? Perché stai piangendo?” mi chiese con fare materno.
Io le raccontai del brutto sogno e lei, probabilmente per consolarmi, mi disse: “è solo un sogno! non ti preoccupare così... sapessi cosa è successo a me invece... altro che sogno! a me è successo davvero!”
“Cosa?! cosa ti è successo davvero?”
“Ora te lo racconto ma guarda che è stata una cosa veramente incredibile... ho creduto d’impazzire... sono stata anche dallo psichiatra sai? ma lui non ha potuto fare niente per aiutarmi, perché non dipendeva dai nervi... E perciò alla fine sono andata persino dall’esorcista...”

La mia compagna di stanza mi raccontò poi che circa due o tre anni prima aveva cominciato a sentire delle voci. Erano solo voci che credeva di percepire così come si sentono i pensieri insistenti, ma più passava il tempo e più li sentiva dentro di lei, non nelle orecchie o nella testa ma proprio dentro di lei. Quelle voci le dicevano che doveva uccidere i suoi nipotini, quei due bambini che sua figlia le affidava durante il suo orario di lavoro (quei due angioletti che poi ebbi modo di incontrare due giorni dopo questo racconto).
Lei aveva creduto subito di essere diventata pazza e così aveva pregato sua figlia di non lasciarla più sola con i nipotini perché aveva paura di peggiorare, di non essere in grado di controllarsi e di far loro del male.
Ebbe così tanta paura di questa sua condizione che decise di sua spontanea volontà di rivolgersi ad uno psichiatra. Per un lungo periodo fece anche la cura che gli era stata prescritta ma la cosa non migliorò neanche un po’ e visto che la medicina non le dava alcun risultato, sua figlia decise infine di contattare anche un prete (aveva sperato che un aiuto spirituale avesse potuto là dove l’approccio medico aveva fallito).
Abitava vicino al Vaticano da sempre e aveva avuto modo di conoscere più di un semplice sacerdote, ma prima si apprestò a confidare questa particolare situazione ad un prete che però subito la indirizzò presso un esorcista.

Ecco, a questo punto del racconto cominciai a pensare: “ooohh, adesso sì che mi sento più tranquilla! come no”!

Entrambi i mariti delle due donne erano sconcertati a dir poco, ma la mia compagna di stanza era “ridotta uno straccio” (disse proprio così) e voleva tentare anche questa strada.
Non voleva uccidere i suoi nipoti ma quelle voci erano così insistenti e piene di rabbia...
Insomma, per farla breve l’esorcismo finalmente la liberò, pur se dopo vari tentativi, e lei tornò ad essere la persona di prima, ma perse l’udito. E inoltre, qualche anno dopo si trovò ad affrontare la sua battaglia contro il cancro al seno.


Abba è con me se io sono con Abba


Sabato 23 aprile:

Dopo che l’infermiera mi prelevò il sangue per le analisi di routine, ricordami di aver visto una cappella mentre raggiungevo la stanza del reparto di pneumologia chirurgica, discesi i sette piani di scale per andarci. Era davvero presto (neanche le 7.00) e così non ci trovai nessuno. Una bella fortuna per me. Volevo proprio stare da sola. Avevo bisogno di parlare direttamente con il Grande Spirito, a Tu per tu. Senza intermediari di sorta.
Entrai già piangendo. Non riuscivo proprio a trattenere lacrime e singhiozzi. Mi sentivo disperata, e con questo stato d’animo cominciai il monologo. Mi stavo rivolgendo ad Abba, sì, ma nello stesso tempo mi guardavo attorno perché nonostante nessun essere umano fosse presente, io “sentivo” che qualcuno mi stava ascoltando. Per questo continuavo a camminare avanti e indietro, guardando ovunque. Non che ci fossero angoli nascosti in quella piccola stanza ma non riuscivo proprio a stare ferma. Con soli quattro passi ora mi trovavo vicino le immagini sacre, ora vicino la porta d’ingresso, ora vicino l’altare... Dunque, ben presto constatai che effettivamente non c’era alcuna persona fisica in quella stanza di cinque metri per cinque. Eppure qualcuno mi stava ascoltando!
Ad un certo focalizzai l’attenzione sul ritratto di Gesù: era la prima volta in vita mia che lo vedevo così raffigurato. Riflettei su quell’originale dipinto.
Mi colpirono in modo particolare quei due raggi di luce colorati (un rosso e uno tendente al celeste) che uscivano dal cuore nascosto sotto la tunica bianca. La mano sinistra di Gesù indicava il cuore e i raggi colorati che da lì uscivano, mentre la destra era alzata in procinto di benedire.
Due giorni più tardi seppi che si trattava del cosiddetto Gesù della Misericordia, e che il ritratto riproduceva la visione che Suor Faustina ebbe a Plock il 22 febbraio 1931. Durante questa visione, il Cristo espresse il desiderio che si dipingesse questa sua raffigurazione ma con su la scritta “Gesù, confido in Te!”
Nel suo diario Suor Faustina scrisse che Gesù le spiegò il significato dei raggi:

“Il raggio pallido rappresenta l’Acqua che giustifica le anime; il raggio rosso rappresenta il Sangue che è la vita delle anime”. (...)
“Entrambi i raggi uscirono dall’intimo della mia misericordia, quando sulla croce il mio cuore, già in agonia, venne squarciato con la lancia”. (...)
“Le grazie della mia Misericordia si attingono con un solo recipiente e questo è la Fiducia”.(...)
“Voglio che l’immagine venga solennemente benedetta nella prima domenica dopo la Pasqua; questa domenica deve essere la Festa della Misericordia”.

E indovinate un po’ chi benedisse il quadro per la prima volta? Ma sì certo, fu proprio Giovanni Paolo II, il 23 aprile 1995 nella Chiesa di Santo Spirito in Sassia, a Roma. Anche Papa Karol mi stava accompagnando in questo doloroso e sconvolgente cammino che stavo percorrendo. Non avevo più dubbi.
In quella cappella ero entrata con la disperazione nel cuore, sì, ma pure con la certezza che soltanto lì avrei potuto trovare le mie risposte. Ero sicura che avrei trovato chi mi avrebbe ascoltata. Ed ero entrata con la consapevolezza che qualsiasi risposta avessi ricevuto l’avrei accettata, senza fare storie, affidandomi con Fiducia nelle mani di Abba.
“Sia come Tu vuoi che sia, ma fammi sapere cosa ne sarà di me! Non voglio fare operazioni, chemioterapia e quant’altro per illudermi di avere salva la vita. Non voglio martoriare il corpo inutilmente. Se devo morire, se è giunta la mia ora, dimmelo! Io l’accetterò senza paura, vivendo al meglio il tempo che mi concederai”.

Feci la mia richiesta col cuore in mano. Volevo sapere proprio questo perché stavo vedendo quale percorso sofferente e travagliato stava percorrendo mia cognata, anche a causa dell’accanimento terapeutico al quale i suoi familiari più stretti non si opponevano, anzi, pressavano perché li seguisse, nonostante non ci fossero miglioramenti ma solo netti peggioramenti. Io non volevo fare altrettanto. Volevo saperlo prima quale fosse il destino che mi aspettava. E inoltre non potevo (e non volevo) affidarmi soltanto delle mani e della coscienza degli medici. Quali garanzie potevano darmi che le cure e le operazioni non fallissero?
Da quel momento in poi, convinta dai sentimenti e dalle emozioni che provavo, sapevo che mi sarei fatta guidare soltanto da Lui.
Abba ascolta tutti coloro che Gli parlano col cuore in mano, e dà loro sempre una risposta. A me ne diede una subito, per cominciare, e me ne diede altre per tutto il tempo che stetti in quell’ospedale e anche dopo.
Volete sapere quale fu la prima risposta chiara e precisa? “Giovanni 15”.
Mentre camminavo da una parte all’altra della piccola stanza, ad un certo punto fui attratta dal Libro aperto vicino all’altare. Di solito i preti non lo lasciano mai sul leggìo finita la messa, o almeno io non ce l’ho mai trovato ogni volta che mi era capitato di entrare in una chiesa.
La parabola parlava dei tralci della vite...

“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiuolo. Ogni tralcio che in me non dà frutto, lo toglie via; e ogni tralcio che dà frutto, lo pota affinché ne dia di più” (...) “Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto; perché senza di me non potete far nulla”.

Dopo averla letta compresi immediatamente che se avessi fatto la scelta giusta questo avrebbe influito sul mio futuro: essere o non essere (dare frutti o non darli, questo avrebbe fatto la differenza!).

Anche nel buddismo si pone particolare attenzione alle scelte perché queste influiscono sul proprio karma futuro. E d’altro canto è anche ovvio che una scelta fatta male porta conseguenze negative, e viceversa.
Dunque, oltre ad essere un insegnamento religioso (il libero arbitrio), la questione delle scelte è una filosofia di vita universale! Molto spesso ci si dimentica di questa realtà di fatto, e altrettanto spesso si agisce senza pensare alle conseguenze. Semplicemente si agisce secondo le richieste del momento...

Mi ricordo che sorrisi con gratitudine, e allo stesso tempo mi rasserenai completamente. Mi sentivo forte e fiduciosa perché sentivo di dimorare in Gesù e Lui dimorare in me. Era un sentimento molto forte. Non è che all’improvviso fossi diventata una fervente cattolica, ma di certo non avevo più dubbi sulla voglia che avevo di essere: volevo diventare quel tralcio di vite che dà frutto.
Un abbraccio colmo di Amore puro mi avrebbe accompagnata durante tutto il resto del tragitto che avrei dovuto ancora percorrere. Sarebbe stata dura, lo sapevo, ma intanto la paura e lo sgomento erano svaniti all’improvviso.

Mentre tornavo nel reparto di pneumologia completamente rinfrancata, riflettei sul fatto che era nato prepotente in me il desiderio di voler portare a compimento tutte le cose che avevo lasciato a metà fino a quel momento, piccole o grandi che fossero: un contrasto mai chiarito negli anni, un perdono da concedere, una riappacificazione che aspettava da troppo tempo, le mie scuse da porgere a qualcuno, un lavoro a maglia lasciato a meta, il libro che volevo scrivere su tutta questa storia e che avevo già cominciato nella mia mente...
Qualsiasi cosa non dovrebbe mai essere lasciata a metà. Spesso si pensa (errando!) di finirla dopo. Ma dopo quando? La vita ci riserva alcune sorpresine che potrebbero non darci più modo di concluderle, e questo non può portarci ad altro che a vivere con ansia avvenimenti naturali come quello della morte!
Qualche ora dopo la colazione, una ragazza passò in ogni stanza dei degenti per sapere chi avrebbe voluto fare la comunione l’indomani. “Io”, risposi prontamente.
Accettai la sua proposta molto volentieri, eppure la cosa mi sorprese un po’: era davvero passato tanto tempo dalla mia ultima partecipazione alla comunione. Ma d’altro canto avevo perso la fiducia nell’istituzione religiosa a causa dei tanti scandali che hanno accompagnato gli uomini-preti nel corso degli anni, e quindi preferivo il tu per tu con Abba invece del contatto con i Suoi rappresentanti.
Ovviamente il sogno-incubo era ancora vivido in me e mi vennero subito in mente i preti-malvagi (quei tre con le dita viola e con le lunghe unghie nere!), e in cuor mio sperai che fosse quella ragazza a darci la comunione. Lei mi era piaciuta.
Pensai che mi trovavo a vivere l’esperienza della “brutta malattia” per la seconda volta a pochi mesi di distanza, ma con uno stato d’animo che non somigliava affatto a quello precedente. In questo frangente ero entrata in una fase mistica (oserei dire!) mentre nell’altro ero alla ricerca dell’approccio intenzionale (della serie: con la mente/l’intenzione si può tutto), ma ero troppo sconvolta allora per riuscire ad applicarlo nonostante credessi, e credo, che funzioni davvero.
Ora avrei avuto il modo e il tempo di collegare i due tipi di esperienza per giungere a quella chiarezza che mi avrebbe aiutata a superare anche questo ostacolo, ma con più consapevolezza, con più presenza.

Come recita un vecchio adagio: “aiutati che Dio ti aiuta”!

lunedì 24 gennaio 2011

Sanità e Santità (5)

L’incubo


Stavo viaggiando a bordo di uno scooter verso il sud Italia. Era una bella giornata di sole.
Mi sembrava che stessimo percorrendo la costiera amalfitana... Guidava il mio compagno. La strada era tutta curve, affacciava sul mare. Notai di avere un paracadute: lo indossavo come se fosse uno zainetto. Tuttavia era legato anche al mento da un cinturino. Sembrava essere un tutt’uno con il casco. Un casco-zaino-paracadute!
Mi stavo guardando attorno quando feci caso che le onde del mare stavano aumentando in forza e in altezza. Ben presto le onde divennero sempre più grandi. Le vidi arrivare sulla strada e travolgere il nostro scooter. Ebbi paura, anche se razionalmente ero preparata a quanto stava per accadere: quello tzunami inatteso ci stava trascinando nelle acque improvvisamente agitate. La forza dell’onda che si ritirava ci avrebbe portati lontano dalla terraferma in un attimo.
Finimmo in mare, sì, ma non andammo troppo lontano perché il paracadute si aprì automaticamente e fece la sua parte bloccando il risucchio dell’onda gigante. Comunque pensai bene di prendere una grande boccata di ossigeno nel momento in cui ci trascinò via. Avevo temuto di averne bisogno per respirare sott’acqua prima di riuscire a riemergere, ma non ce ne fu bisogno.
Non annegammo.
Approfittammo dell’istante di calma che precede di solito l’arrivo di una’altra onda anomala, per nuotare verso la riva.
Mi liberai in fretta del casco-zaino-paracadute ormai bagnato, ingombrante, pesante e anche pericoloso (poteva trascinarci sul fondo!) e riuscimmo a raggiungere a nuoto di nuovo la strada.
Da quel momento persi di vista Moshé.
Ero consapevole che avrei percorso in solitudine la strada mi aspettava.

Cambio scena:
Camminai tanto prima di riuscire a scorgere un luogo abitato. Il primo edificio che vidi fu una chiesa. Fuori c’erano tanti turisti e fedeli.
Entrai, e con sorpresa vidi che c’era soltanto Mariasole all’interno.
Notai che la chiesa era in stile gotico e questo mi spaventò. Non sapevo bene perché, ma quel senso di paura mi prese fino a consigliarmi di andar via di lì. Subito.
Dopo aver parlato con Mariasole esternando il mio timore, notai tre preti non proprio rassicuranti e continuai a dire a mia sorella di sbrigarci ad uscire dalla chiesa. Ma lei non mi diede retta:
“Dobbiamo affrontarlo questo problema altrimenti ce lo ritroveremo anche andando altrove!”
Non riuscii a convincerla neanche insistendo più volte. Ovviamente non l’avrei lasciata lì da sola e perciò la sua irremovibile convinzione mi “costrinse” a restare. Mi aspettavo il peggio da quel “cul de sac”!
I tre pseudo-preti erano disposti a triangolo irregolare: il primo era dietro l’altare, il secondo vicino le panche per i fedeli a destra, e il terzo vicino alle panche di sinistra ma un po’ più vicino all’uscita.
Ero appena entrata e quindi ero più vicina al terzo prete, più vicina all’uscita. Mariasole invece era entrata prima di me, e perciò si trovava più vicina all’altare e al prete che si trovava dietro di questo.
Lei non volle decidersi ad uscire, e mentre ancora cercavamo l’un l’altra di convincerci a restare o uscire, venni ammonita da quel prete che era il più vicino a me: lui mi puntò il dito indice contro mentre gli altri sorridevano in modo complice e sinistro.
Mi spaventai ancora di più quando vidi che il colore di quel dito era viola scuro, quasi nero. L’unghia era lunga, un po’ curva, e nera senz’altro.
Mi rassegnai a restare, sì, ma non mi diedi per vinta e cominciai a pregare intensamente (era l’unica cosa che mi fosse venuta in mente di fare: chiamare Dio, l’entità positiva e amorevole per eccellenza, in nostro soccorso e contro quei finti preti, in un luogo che avrebbe dovuto essere la “Sua casa” ma che invece non lo era affatto).

Cambio scena
Incontrai mia cognata in una camera dove due letti erano sistemati per terra. C’erano soltanto i materassi. Niente rete.
Pensai di riposarmi un po’ (mi sembrava di aver faticato abbastanza!) e perciò mi coricai su uno di questi (uno a caso). A questo punto entrò mia cognata che, vedendomi coricata, cominciò ad urlarmi contro dicendomi che quello era il suo letto.
Era visibilmente contrariata mentre mi gridava di uscire dal letto e dalla stanza. Io mi alzai subito e nel contempo cercai di tranquillizzarla dicendole che non volevo prendere il suo posto. Poi le chiesi:
“Ma come fai a stare in questa stanza? Quei ragazzi fanno così tanto rumore che si sente anche con la porta chiusa. Come fai a riposare con questo baccano? Perché non vieni con me? Io sto in un posto più tranquillo...”
“No, no, io devo rimanere qui... vai tu... io sto bene qui...” (soltanto un anno dopo avrei capito il perché di questa sua affermazione: non la vinse la sua battaglia contro il cancro).
Quando uscii dalla “stanza-di-mia-cognata” vidi tutti quei ragazzi che fino a poco prima avevo soltanto ascoltato rumoreggiare. Erano riuniti a gruppi di quattro/cinque, chi con bottiglie di birra in mano, chi ad ascoltare la musica riprodotta dall’impianto stereo installato nelle automobili, e tutti parlavano a voce sostenuta per riuscire ad ascoltarsi l’un l’altro...
Fra questi c’era anche uno dei miei tanti cugini (che poi nella realtà erano anni che non lo avevo più incontrato). Mi sorprese vederlo seduto sul cofano di una macchina, un po’ distante da tutti gli altri, quasi estraniato. Eppure sembrava facesse parte di quel gruppo di scalmanati. Lo salutai:
“Ma cosa ci fai qui? Non mi pare tu sia il tipo da stare in una situazione come questa...” (e in effetti non lo è mai stato!).
“Avevo bisogno di riflettere...” mi rispose con aria triste, “...comunque ora me ne torno a casa” (e anche riguardo la sua situazione, soltanto un anno dopo avrei saputo perché lo avevo incontrato proprio in quel contesto: suo padre morì dopo una lunga malattia)

Cambio scena:
Dopo aver salutato mio cugino rimasi di nuovo sola e così proseguii il “mio” cammino, lasciandomi alle spalle mia cognata (nella stanza chiusa) e i ragazzi ancora su di giri (fuori).
Mi ritrovai di nuovo nella chiesa gotica. Mariasole non c’era più. Stavolta sarei uscita: la scelta dipendeva soltanto da me...
Scesi una rampa di scale che mi portò subito all’aperto. Appena arrivai sull’uscio potei vedere ancora una volta l’avvicinarsi delle onde del mare. Erano pericolosamente alte e violente.
Non ero più sola perché lungo tutta la rampa di scale c’era molta altra gente che si lasciò prendere dal panico alla vista del maremoto, mentre io rimasi calma, riuscendo anche a ragionare fra me e me.
Sarei stata una delle prime ad essere investita dall’onda in quanto ero la più vicina all’uscita,ma stranamente non ebbi paura: “Sarà come dev’essere” pensai, e inalai quanta più aria mi riuscì di immagazzinare nei polmoni, per darmi una chance di sopravvivenza. Dunque non tentai di scavalcare gli altri per salvarmi, non tentai di passare sopra i loro corpi per arrivare in cima alla rampa di scale (cosa che invece gli altri fecero disperatamente, fregandosene di fare del male al prossimo).
L’onda investì tutto e tutti ed io usufruii dell’aria che avevo prudentemente immagazzinata. Questa fu sufficiente a farmi resistere perché l’onda anomala, con la stessa rapidità con cui si avvicinò si ritirò ma portandosi via la maggior parte di quelle persone.
Ce l’avevo fatta! Era tempo di risalire le scale per arrivare fino al capanile.
Davanti a me c’erano ormai pochissime persone (l’onda ne aveva portati via molti, e quei pochi rimasti si stavano sbrigando a salire). In particolare, io ero l’ultima della fila e davanti a me c’erano una mamma con il suo bambino che teneva in braccio.
Era arrivato il nostro turno di varcare la soglia della porta che dava sull’atrio del campanile, ma in quell’istante la donna si fermò. Era molto serena e fiduciosa. Fu allora che sentimmo suonare le campane, e quel momento mi sembrò davvero speciale. Magico!
Soltanto poco prima pensavo di volermi sbrigare a varcare la soglia per mettermi in salvo, ma poi vidi la mamma sorridere e la sentii dire:
“E’ una fortuna sentir suonare le campane proprio mentre stiamo varcando la porta, vuol dire che siamo benedetti. Sai, c’è una leggenda che dice che chi arriva fino a qui e sente suonare le campane mentre sta per entrare, è benedetto”.
Il bambino, ancora in braccio alla madre, mi guardò sorridente, mi tese la manina e mi alitò sulla faccia. Io mi senti pervasa di felicità e di Fiducia per questo gesto, e anche per le parole che avevo appena ascoltato.

Cambio scena:
Appena varcata la soglia, la donna si diresse proprio verso l’edificio di fronte, là dove erano andati tutti (a pregare, pensai).
La chiesa non era più in stile gotico ma romanico, e questo (non so bene perché) mi fece tanto piacere.
Il sole illuminava il grande giardino. Sulla sinistra potevo vedere la scogliera e il mare quasi calmo, mentre sulla destra vedevo il campanile. Io mi diressi verso il campanile e m’intrufolai in un piccolo buco nel muro, situato in basso (non c’era una normale porta). Nel momento in cui entrai mi sorpresi non poco, perché nella realtà soffro un po’ di claustrofobia e non mi salterebbe mai in testa di fare la speleologa!.
Una volta dentro, salii le scale e giunsi in una stanza che mi sembrò fosse sotto il piano del campanile. Capii che si trattava di una stanza segreta dove le residenti, tutte ragazze capeggiate da un uomo enorme, praticavano magia nera. Praticamente erano streghe. E l’uomo gigante era il loro capo.
Scoperta questa losca situazione nascosta dietro una facciata perbene, decisi di voler sconfiggere le streghe a forza di controfatture (cioè le preghiere, l’unica arma che sapevo avrebbe avuto effetto).
Consapevole di essere stata benedetta, mi convinsi che avrei potuto riuscire a sconfiggere il male.
Per entrare nel covo delle streghe dovetti dunque passare per un buco. Questo era talmente stretto che non so neanche io come riuscii a farlo. Ma sapevo che “qualcuno lassù mi amava” ed ero convinta che mi avrebbe aiutata, perciò non mi feci tanti problemi nonostante stessi, nel frattempo, riflettendo razionalmente sulla mia reale claustrofobia rispetto ai cunicoli.
Ci misi un bel po’ di tempo ma alla fine le streghe caddero una ad una, sconfitte dalla potenza della preghiera e della Fiducia con cui stavo agendo. Caddero quasi tutte. Ne rimase soltanto una, ma a quel punto neanche la cercai, anzi, le parlai. Veramente parlai ad alta voce in una stanza apparentemente vuota perché lei si era ben nascosta. O meglio, si era perfettamente mimetizzata con il muro, così da non farsi scorgere:
“Non fa niente, ti lascio andare, tanto tu da sola non puoi nulla”.
Ad un certo punto della “battaglia” contro le streghe, mi ricordai di un uomo che si era offerto di aiutarmi. Era salito poco dopo di me, entrando dallo stesso pertugio per raggiungere la stanza segreta. E fu proprio grazie a lui che l’uomo gigante (il capo delle streghe) decise di suicidarsi buttandosi giù dal campanile. Subito dopo, tutta la gente che era affluita nella chiesa uscì per accorrere sul posto per vedere cosa fosse accaduto, tanto era stato forte il tonfo.
Molte furono le domande che si posero:
“Ma chi è questo gigante, perché si è buttato giù?”
“Ooohhh! ma quanto è grande questo uomo...”
“Certo non può essere stato qualcuno a buttarlo giù”.
“Sì, sembra davvero sia un suicidio”.
Curiosità e sgomento palpabile tra la folla.
Paura, certezza, accettazione, (...) miscuglio indescrivibile di sentimenti nel mio cuore, e con queste sensazioni ingarbugliate mi svegliai di soprassalto, piangendo come un vitello (chissà perché si dice così?).